San Pietro
Il borgo di San Pietro un tempo era noto con il nome di “San Pietro del Bosco” ed era caratterizzato da due aggregati. Il più antico era posto sulle pendici della Costa di Darétu, gradualmente abbandonato dagli abitanti per spostarsi più in basso ai margini della strada provinciale, dopo la sua apertura. L’altro aggregato si trovava ai bordi della stessa strada, dove sorge anche la chiesa dedicata all’apostolo Pietro. I ruderi dell’antico borgo affiorano sul lato nord della chiesa, nell’Olticèddu di lu Putzu e nella Minda di la Fai. Tra i ruderi si può individuare un antico pozzo realizzato con i conci di scisto legati a secco, e sia all’interno che all’esterno dell’edificio sacro, sono stati rinvenuti numerosi seppellimenti. La posizione del borgo di San Pietro fa pensare che questo possa essere l’antica Sortinissa, citata più volte nel Liber Fondachi, il registro fiscale pisano dove, nel XIII secolo venivano riportate le entrate fiscali dei possedimenti pisani in Sardegna. Secondo questa testimonianza, nel 1317/1318 in quel periodo il borgo era abitato da quattordici famiglie per un totale di circa una settantina di persone. Questo rende il borgo di Sortinissa uno dei centri di media grandezza della Gallura inferiore del XIV secolo.
UNA SOCIETÀ PASTORALE
Nel borgo di San Pietro, fino a mezzo secolo fa, la principale fonte di sostentamento era la pastorizia. Quando un abitante del borgo voleva avviare questa attività ma non possedeva niente, i pastori della zona gli donavano una pecora, permettendogli quindi di formare il proprio gregge e iniziare a lavorare. Questa pratica era definita punitura e avviene ancora oggi quando un pastore perde il gregge a causa di calamità naturali come le alluvioni. Molti pastori invece preferivano occuparsi del bestiame altrui: curavano gli animali e poi dividevano i frutti del lavoro – agnelli, lana e latte – con il proprietario del bestiame. Il terreno utilizzato era del proprietario e veniva chiamato pasculu. Sempre nel mondo della pastorizia, gli anziani ricordano il contratto a cappucciu. Questo si stipulava quando sia il pastore che il proprietario avevano il bestiame. Generalmente il proprietario aveva anche la terra e metteva a disposizione i 2/3 delle bestie che componevano il gregge, mentre il resto lo metteva il pastore. I frutti del lavoro, infine, venivano divisi nella medesima proporzione. A maggio tutti i pastori procedevano con la tosatura delle pecore, per la quale si utilizzava la fòlbicia pa tundì, le forbici per tosare, e anche qui vigeva collaborazione e solidarietà tra pastori. Se un pastore aiutava a tosare le pecore di un suo confinante o amico, il prestatore di lavoro non riceveva una somma di denaro ma un aiuto nella tosatura delle pecore di sua proprietà. Questa pratica era definita agghjutu turratu.
LA MIETITURA E LA TREBBIATURA
Un’altra fonte di sostentamento per gli abitanti di San Pietro era la lavorazione della terra. Anche in questo caso chi non possedeva niente poteva comunque lavorare per qualcun altro: il contratto tra le parti – il proprietario del terreno e il lavoratore – era chiamato a mezzadria. Il lavoratore, chiamato mezzadro, si occupava della terra e metteva a disposizione il proprio il giogo con il carro e i buoi. Il raccolto ottenuto si divideva a metà.
A maggio arrivava il momento della mietitura, con il raccolto del grano maturo. Questo veniva raccolto in bulzéddhi, cioè in piccoli mazzi: venti mazzi componevano la maniata. La trebbiatura, in gallurese agliòla, si praticava a luglio: si separavano i chicchi di grano dalle spighe grazie all’ausilio dei buoi e durante una giornata di vento, lo si sollevava in aria (vintulàa) per separare il grano dalla paglia e dai residui.
Da Olbia prendete la SS131 DCN in direzione Nuoro. Dopo circa 30 chilometri prendete l’uscita verso Budoni/Agrustos e poi imboccate la SP24 in direzione San Pietro.